La legge di Bilancio 2023 contiene importanti elementi di novità sulle pensioni, in buona parte anche pesanti per la categoria.
Partiamo però da un paio di considerazioni preliminari di ordine politico. La prima: ancora una volta, a distanza di oltre dieci anni dalla c.d. riforma Fornero e secondo un copione che si ripete, le misure in materia pensionistica della legge di Bilancio hanno la solita connotazione di provvedimenti parziali e tampone in attesa della riforma che verrà, tesi solo a limitare i danni di una applicazione piena della Fornero e dunque al fine di evitare l’entrata a regime dei requisiti previsti da quella riforma che prevede, come noto, uscite dal lavoro a 67 anni per anzianità o con 42 anni (41 per le donne) e 10 mesi in via anticipata, che però interesseranno un numero esiguo di pensionandi.
La seconda considerazione è che, a undici anni dalla riforma Fornero, è la prima volta a nostra memoria che la manovra di bilancio usa il sistema previdenziale come cassa, togliendo più risorse di quante ne assegna, atteso che, come ben dimostrano i numeri della manovra, il sistema previdenziale contribuisce con 2,1 mld di euro, che sono frutto dei tagli operati. Fare cassa con i pensionati, come la manovra di bilancio propone, è una circostanza nuova e incredibile.
Entriamo ora nel merito delle misure adottate dal Governo:
- “QUOTA 103”: rinviata a tempi futuri la riforma della legge Fornero, al fine di evitare l’entrata a regime dei requisiti previsti dalla riforma del 2011, il DDL Bilancio contiene un nuovo schema di anticipo pensionistico che consentirà di andare in pensione con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica (62 + 41= 103). L’uscita dal lavoro prevede inoltre una finestra mobile, di tre mesi per i lavoratori privati che maturano i requisiti nel 2023, sei mesi invece per i lavoratori pubblici.
“Quota 103” prevede in aggiunta un tetto dell’assegno pensionistico pari a 5 volte il trattamento minimo (circa 2.650 €), che si applicherà sino al raggiungimento dell’età per la pensione di vecchiaia (67 anni), il che comporterà, per il periodo di pensione pre-67 anni, una decurtazione dell’assegno.
Altra novità è l’introduzione di un incentivo economico a restare al lavoro per chi matura i requisiti per “quota 103” e decidesse di non usufruirne restando a lavorare, avrà diritto di chiedere al proprio datore di lavoro di non pagare più i contributi all’ente previdenziale, ma di versarli direttamente nella propria busta paga, aumentandone così l’importo di circa il 10%.
Come CSE – FLP Pensionati chiediamo da tempo la possibilità di uscita dal lavoro con 41 anni di contributi, ma senza ulteriori vincoli e condizioni. La scelta del governo è stata invece quella di dire sì al requisito dei 41 anni di servizio, ma coniugandolo con il vincolo anagrafico dei 62 anni d’età, il che ne limita fortemente l’utilizzazione (le ultime stime parlano di 42mila lavoratori potenziali fruitori), e ulteriormente limitante ci appare il tetto previsto per l’assegno pensionistico. E per quanto attiene all’incentivo economico per chi resta al lavoro, va detto che l’aumento della busta paga avrà come contraltare il minor importo della futura pensione, che senza quei contributi sarà ovviamente più leggero.
- “OPZIONE DONNA”: rispetto ai requisiti oggi previsti (35 anni servizio e 59 anni d’età, 60 per le lavoratrici autonome), la legge di Bilancio ne prevede la proroga, ma con modifiche peggiorative.
I requisiti da maturare entro l’anno in corso saranno sempre i 35 anni di servizio, ma si uscirà solo con 60 anni d’età e a condizione di rientrare in una delle seguenti categorie (uguali a quelle dell’APE Sociale): caregiver da almeno 6 mesi; riduzione della capacità lavorativa pari almeno al 74%; licenziate o lavoratrici dipendenti da imprese per le quali è stato avviato un tavolo di crisi (in questo caso il requisito è ridotto a 58 anni).
Dunque sale di un anno il requisito d’età anagrafica per l’accesso a opzione donna (da 59 a 60), che si riduce a 58 anni con due figli e a 59 con 1 figlio, ma si restringe la platea delle donne potenziali utilizzatrici, limitate alle categorie precedentemente richiamate. E in ogni caso il DDL riconferma il ricalcolo interamente contributivo per la determinazione dell’importo della pensione, che continuerà così a produrre le penalizzazioni fino al 30%.
Non comprendiamo le ragioni di una scelta che limiterà ulteriormente l’utilizzo di “opzione donna” penalizzando così ancor di più le lavoratrici. Noi chiedevamo invece che venisse confermata negli attuali requisiti “opzione donna”, cancellandone solo l’obbligo di ricalcolo contributivo, e continuiamo a pensare che quella era la strada giusta da imboccare.
- “APE SOCIALE”: prorogata a tutto il 2023 senza modifiche, con la riconferma dei requisiti di accesso previsti, che ne ha peraltro anche allargato la platea: 63 anni di età e 30 anni di contributi per disoccupati, caregiver, lavoratori con handicap pari ad almeno il 74%; sempre 63 anni ma con 36 anni di contributi, invece, per addetti a mansioni gravose o pesanti, che debbono essere state effettuate per 6 anni negli ultimi 7, o per 7 anni negli ultimi 10.
Giudichiamo in modo positivo la proroga di APE Sociale che avevamo ripetutamente richiesto, anche se avremmo voluto la riduzione a 30 anni del requisito contributivo per i lavori gravosi, ampliando la platea delle attività gravose e usuranti, che nell’attuale formulazione non fotografano tutte le situazioni meritevoli di tutela, che andrebbero implementate con l’inserimento di altre figure, a partire dagli operatori della sanità (personale infermieristico, OSS e socio sanitario) e socio assistenziale.
- PEREQUAZIONE 2023: la scelta operata dal governo – a nostro giudizio inopportuna – è stata quella di modificare l’impianto della perequazione e i suoi effetti sugli aumenti delle pensioni da gennaio p.v..
Infatti, rispetto al 7,3 % fissato nel DM a firma Giorgetti del 9.11.2022, con le nuove regole delle legge di Bilancio 2023 sono state apportate numerose modifiche, anche rispetto alle proposte inserite nel DDL:
In sede di discussione parlamentare è stato infatti modificato il DDL originario, e ora, nel testo all’esame del Senato, è previsto l’innalzamento, ma solo per il 2023, a 600 euro delle pensioni minime.
Cambia pure la norma che rivede per il 2023 e il 2024 la rivalutazione automatica delle pensioni: viene portata all’85% la percentuale di rivalutazione delle pensioni tra 4 e 5 volte il minimo (tra i 2.000 e i 2.500 euro).
Le pensioni più alte invece avranno una rivalutazione minore rispetto a quella prevista nel DM: sarà del 53 % per quelle tra 5 e 6 volte il minimo, del 47% tra 6 e 8 volte il minimo , del 37% per quelle da 8 a 10 volte il minimo e del 32 % per le pensioni otre 10 volte il minimo ( quelle a partire dai 5.000 euro).
Appare evidente ai nostri occhi come la mancanza di una significativa flessibilità nelle uscite dal lavoro (che permarrà tutta nel 2023, anche a fronte di “quota 103”, in un Paese come il nostro che ha l’età di pensionamento tra le più alte del mondo), il depotenziamento di “opzione donna” e la minore tutela del potere d’acquisto delle attuali pensioni, costituiscono scelte di carattere operativo che ci appaiono orientate da una scelta a monte di carattere politico, per noi assolutamente inaccettabile, di sottrarre risorse al sistema pensionistico per destinarle ad altri soggetti (partite IVA in primis) e di fare così cassa con le pensioni.
Dall’esame della Legge di bilancio 2023 emerge, inoltre, da un lato il carattere iniquo delle misure in ambito fiscale con la previsione della flat tax al 15% per i redditi da lavoro autonomo fino a 85.000 euro, mentre lavoratori dipendenti e pensionati sono tassati alla fonte, con aliquote ben più alte, e con la riproposizione dell’ennesimo condono delle cartelle esattoriali, che premia i furbi e penalizza chi le tasse le ha pagate. Così come l’aumento dell’utilizzo del contante è un chiaro segnale nella direzione di chiudere un occhio sulle transazioni in nero e sull’evasione fiscale.
Sul lavoro pubblico vengono congelati i rinnovi contrattuali scaduti a dicembre 2021 e viene prevista solo l’erogazione di una somma una tantum pari all’1,5% di incremento degli stipendi, presumibilmente a titolo di acconto. Tale “mancetta” è del tutto inaccettabile, con un’inflazione annua che solo per il 2022 si attesta al 10%, e che essendo percentualizzata in modo lineare sulla retribuzione complessivamente percepita comporta benefici economici (si fa per dire) più alti per chi guadagna di più. Si passa da circa 75 euro mensili per i dirigenti a poco più di 27 euro medi lordi per il personale delle Aree professionali. E permane l’inaccettabile discriminazione rispetto al lavoro privato sulla tassazione agevolata del salario aziendale, sui fringe benefit e più in generale sul welfare aziendale.
Un indebolimento del potere di acquisto con riflessi non solo sulla vita di milioni di lavoratrici e lavoratori e sulle loro famiglie, ma che avrà anche un effetto recessivo molto forte. Sulla PA continua la logica dei tagli lineari e della spending review con 800 milioni di tagli per le Amministrazioni centrali e mancati nuovi investimenti, mettendo ancora più a rischio gli obiettivi posti a base del PNRR, su cui si registrano già forti ritardi.
Anche sul fronte delle pensioni la manovra appare insufficiente, con una rivalutazione delle pensioni minime molto blanda, la penalizzazione con la mancata o parziale indicizzazione di tutte le altre, anche quelle che invece necessitano di un adeguamento al costo della vita, balzato alle stelle negli ultimi mesi, un depotenziamento di Opzione Donna in versione ristretta con la nuova variabile figli, quota 103 (41 anni di contributi e 62 di età), che riguarderà poco più di 40.000 lavoratori. Misure che stimano un risparmio sulla spesa pensionistica pari a circa 2 miliardi di euro. E con i tempi che corrono risparmiare sulle pensioni è un segnale francamente inaccettabile.
Anche le misure per il lavoro sono insufficienti: si confermano le percentuali di abbattimento del cuneo fiscale varate da Draghi, che però, in una fase di forte ripresa dell’inflazione, incidono relativamente sulla tenuta del potere di acquisto, mentre l’indebolimento del reddito di cittadinanza e la mancata previsione del salario minimo rendono ancora più poveri, e meno tutelati, ampi settori della nostra popolazione. Così come aumenta la precarietà e il lavoro sottopagato con la riproposizione dei famigerati voucher.
Positiva invece la norma che prevede un ampliamento del congedo parentale per i lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, attualmente concesso ad entrambi i genitori alternativamente, fino ai 12 anni di età del figlio. In particolare, si prevede per il 2023 che uno dei mesi di congedo parentale, da fruire entro il sesto anno di vita del bambino, sia indennizzato all’80% della retribuzione imponibile invece che al 30%.
Da tutto quanto sopra esposto emerge una valutazione complessivamente negativa della Legge di Bilancio 2023 che interviene solo parzialmente sul recupero del potere di acquisto di lavoratori e pensionati, innesta elementi di forte iniquità nel campo fiscale con il superamento del principio costituzionale della progressività delle imposte, si caratterizza per un approccio recessivo e non espansivo.
Una manovra che nel corso dell’esame parlamentare ha infatti subito solo alcune lievi modifiche rispetto a quelle da noi auspicate e richieste nel corso delle audizioni tenutesi presso le commissioni bilancio di Camera e Senato.