Secondo le stime diramate dall’ISTAT nel report pubblicato il 5 gennaio 2023 il tasso di inflazione complessivo a dicembre nel nostro Paese si attesta all’11,6%, mentre quello relativo ai soli beni alimentari e di consumo sfiora il 15%.
Sempre secondo l’ISTAT l’indice statistico al netto dei prodotti energetici, quello che viene considerato a riferimento per il calcolo degli incrementi salariali in sede di rinnovo contrattuale, che negli ultimi mesi è stato per così dire calmierato dall’intervento del governo Draghi sulle accise dei prodotti petroliferi – ora non più confermato dal 1 gennaio 2023 dal governo Meloni – raggiunge all’incirca il 13%.
Stime queste che provengono dall’Istituto pubblico deputato a tale certificazione, non certo da fonte sindacale (a nostro parere infatti l’inflazione percepita da famiglie e imprese in questi mesi è ben più alta), ma che comunque confermano quanto diciamo da mesi come FLP.
Il costo della vita è salito alle stelle, mentre i redditi da lavoro dipendente e da pensione sono sostanzialmente fermi da anni e tale dinamica ha portato a un drastico ridimensionamento del loro potere d’acquisto.
Per non parlare di chi è fuori dal mercato del lavoro, o ne è ai margini, senza tutele e con salari da fame.
Il famigerato IPCA (l’indice statistico che come dicevamo viene considerato in sede di stanziamento delle risorse per i rinnovi contrattuali del lavoro pubblico) è confermato attestarsi al 13% annuo, mentre i Contratti nazionali di lavoro rinnovati nel 2022, per il triennio già trascorso 2019/2021, sono stati definiti sulla base di un incremento complessivo del 4,7% nel triennio (circa l’1.6 %su base annua per intenderci).
E per il 2023 nella legge di bilancio appena approvata non è stanziata una posta specifica per i rinnovi contrattuali, ma è prevista unicamente l’erogazione di un somma percentuale di incremento salariale, a titolo di una tantum, pari all’1,5%.
Così mentre a dicembre 2022 l’inflazione certificata dall’Istat è circa del 12%, per il 2023, con il rialzo della benzina dovuto al mancato intervento di riduzione delle accise, potrebbe attestarsi intorno al 15%, comportando una perdita secca nel biennio 2022/2023 dei potere d’acquisto di circa il 28,5%!
Il tutto mentre negli altri Paesi che contano dell’Unione Europea, l’inflazione, pur in crescita è comunque più contenuta, e soprattutto gli stipendi sono decisamente più pesanti in quanto, a differenza di quanto avvenuto nel nostro Paese, sono stati oggetto di sostanziali rivalutazioni nell’ultimo decennio.
Un inizio di 2023 quindi che ci preoccupa e che ci porta a chiedere con forza interventi immediati, in discontinuità anche con il passato, che garantiscano la tenuta dei redditi, l’apertura del negoziato per il rinnovo dei contratti, il riconoscimento delle professionalità e del lavoro pubblico.